Steve Kerr in rampa di lancio, a Snyder ed ai suoi Jazz serve tempo

Nell’ultimo numero di “Rookie Corner” ci siamo occupati di chi, i panni del rookie, li veste in giacca e cravatta seduto in panchina. Abbiamo analizzato la stagione di David Blatt e Derek Fisher: uno esordiente solo per modo di dire, e l’altro un primo anno a tutti gli effetti. Oggi è il turno di Steve Kerr e Quin Snyder, due coach che, alla guida di Warriors e Jazz, stanno vivendo una stagione diametralmente opposta.
STEVE KERR: Golden State Warriors
Presentando D-Fish settimana scorsa, abbiamo parlato del “Venerabile Maestro” come del pupillo per eccellenza di Phil Jackson. Vero ma non verissimo, se pensiamo che la prima scelta del plenipotenziario dei Knicks per la scottante panchina di New York era in primis ricaduta sul 5 volte campione NBA con le casacche di Bulls e Spurs. Il corteggiamento, protrattosi per settimane, si è concluso con un nulla di fatto, anche se non si è certo trattata di una decisione semplice, come raccontato dallo stesso nativo di Beirut al momento di spiegare le ragioni dietro al suo “Gran rifiuto”: “E’ stato difficilissimo dire no a Jackson per tutto quello che ha fatto per la mia carriera. I Knicks mi intrigavano per lui e perché sono una delle squadre più rappresentative della lega. Sono sicuro che riuscirà a cambiare le cose a New York, ma sarà un’impresa e ci vorrà tempo, e l’idea di farlo così lontano da casa non mi sembrava giusta”.
Con il senno di poi, quella di Kerr, è stata forse la più tipica delle “sliding doors”, visto che attualmente alla guida dei suoi Golden State Warriors si trova al primo posto della western conference, con il miglior record della lega, mentre i Knicks giacciono ultimi ad est, con il peggiore…
Provare a spiegare le ragioni che si celano dietro al successo di Kerr nei panni dell’head-coach non è per nulla semplice. Si è trattato (forse) di una sorta di combinazione astrale che ha fatto di lui, l’uomo giusto al momento giusto, in un’ascesa che ricorda parecchio proprio quella vissuta da Phil Jackson ai Bulls nell’immediata era post Doug Collins. L’arcano, ha provato a svelarlo lo stesso Kerr nel corso di una recente intervista: “Il modo in cui alleno, è completamente derivato dalla mia esperienza maturata sotto diversi allenatori. Non ho preso qualcosa solo da Phil o da Pop (Phil è Phil Jackson, Pop è Gregg Popovich), ma anche da Cotton Fitzsimmons, Lenny Wilkens e Lute Olson. La cosa più importante che ognuno di loro mi ha insegnato è però quella di essere me stesso, perché i giocatori, lo capiscono quando un allenatore si sforza di essere qualcosa che non è”. Ed evidentemente Kerr è veramente qualcosa di speciale, se pensiamo che è stato il primo nella storia della NBA ad aggiudicarsi 21 delle sue prime 23 partite da capo-allenatore. Certamente, la presenza in squadra del prossimo MVP della lega e di tantissimi altri giocatori eccellenti, con un roster estremamente profondo e completo, hanno agevolato il suo ottimo lavoro, ma si sa che la fortuna, spesso, aiuta proprio gli audaci…
QUIN SNYDER: Utah Jazz.
Dei quattro nuovi rookies, giunti quest’anno nella NBA per sedersi in panchina, in un ipotetico draft degli head-coach, Quin Snyder sarebbe sicuramente stato scelto con la chiamata più bassa, se non altro per questioni di appeal. Eppure, l’ex playmaker dei Duke Blue Devils che raggiunsero le Final Four del torneo NCAA nel 1986, 1988 e 1989, ha alle spalle un’esperienza ventennale come assistente/capo allenatore che lo ha portato ad entrare in contatto con alcuni dei coach più influenti, vincenti ed affermati, dai quali, proprio come Kerr, raccogliere ed ereditare qualche piccolo segreto ed insegnamento. Terminata anzitempo la sua esperienza da giocatore e laureatosi in filosofia, Snyder ha iniziato ben presto la propria carriera da assistente, prima ai Clippers sotto gli ordini di un certo Larry Brown e poi a Duke, la sua Alma Mater, sul cui pino sedeva già “Mister 1000 vittorie”, Mike Krzyzewski. Da lì, la prima esperienza come head-coach all’università di Missouri, condotta fino alle Elite Eight nel 2002, per poi passare agli Austin Toros, in D-League. Nel 2011, è tornato a rivestire i panni dell’assistente con Doug Collins ai 76ers per poi chiudere il suo lungo peregrinare con un’esperienza in Europa insieme ad Ettore Messina al CSKA e ad Atlanta, la passata stagione, con Mike Budenholzer. Un pedigree di tutto rispetto che ha convinto Dennis Lindsey ad affidargli la panchina dei Jazz, nominandolo ottavo head-coach a dirigere la compagine di Salt Lake City. Chiaramente non tutti gli esordienti (pur se audaci) possono vantare la fortuna di trovarsi in squadra gente del calibro di LeBron James o Stephen Curry, e quando il tuo uomo franchigia, con tutto il dovuto rispetto del caso, è Gordon Hayward, le cose, in una western conference iper-competitiva, possono farsi davvero complicate. Nelle sue prime 55 partite, l’ex Blue Devils, ha raccolto 21 vittorie, valide per un 11esimo posto ad ovest, ma si sa che l’arte di vincere la si impara anche, se non soprattutto, nelle sconfitte...