Manute Bol, il gigante buono che un giorno uccise un leone

Due gambe lunghissime sottili come fili d’erba, la pelle color dell’ebano ed un sorriso di quelli che riempiono il cuore.
La prima volta che ho visto una foto di Manute Bol, mi sono subito chiesto come dovesse sembrargli la vita vista da lassù, se anche a 232 centimetri dal suolo, il parquet avesse lo stesso intenso profumo. Indossava la canottiera degli Washington Bullets, aveva i piedi ben saldi sul parquet e con le braccia protese verso il cielo abbracciava il ferro del canestro. Sorrideva.. forse aveva appena cancellato il tiro di qualche impavido penetratore, o forse stava per spiccare il volo respingendo una preghiera scagliata verso il tabellone.
Impossibile non notare quanto fosse incredibilmente più alto di chiunque altro attorno a lui anche in una lega di giganti come la NBA, e come, allo stesso tempo, la sua figura flessibile e sottile (91 kg), sembrasse così fragile da farti chiudere gli occhi ad ogni contatto. Woody Allen, con l’ironia che lo contraddistingue, sapientemente, di lui diceva: “Quando giocano in trasferta, per risparmiare lo spediscono via fax”.
Il giorno in cui entrò nella NBA, Bol, era perfettamente in grado di stoppare 397 tiri diretti a canestro, (record che per un rookie regge tutt’ora), ma non di scrivere correttamente il proprio nome, né tantomeno, di leggerlo. Nato e cresciuto (parecchio..) in quello che oggi conosciamo come Sud Sudan, ma che allora si chiamava semplicemente Sudan, Manute, trascorse i suoi primi anni di vita badando al gregge di famiglia, proteggendo le sue mucche con la stessa forza ed intensità con cui avrebbe difeso il canestro, prima, ed il suo popolo, poi. La leggenda vuole, che all’età di 15 anni, quando probabilmente aveva già abbondantemente scollinato i 2 metri, uccise addirittura un temerario leone che aveva deciso di fare del pastorello Manute e del suo gregge, la propria cena.
Non fatevi trarre in inganno però, Manute era un gigante, ma di quelli buoni. Non era un grande attaccante sul parquet, uno di quei giocatori cui affidare l’ultimo tiro di una partita e, magari neanche il primo, a meno che non ne foste costretti. Aveva costruito la propria fama lottando su ogni pallone, ergendosi ad àncora delle difese, sbucciandosi gomiti e ginocchia ogni notte, ma questo non gli valse mai contratti ad N zeri. Teneva per se solo lo stretto indispensabile e spediva tutto ciò che gli restava, in Sudan per sostenere la causa dei ribelli separatisti del Sud, oggetto di accanita persecuzione da parte dei fondamentalisti islamici del nord del paese.
13 anni di battaglie sui parquet americani, ed un breve cammeo in Italia con la maglia di Forlì, segnarono profondamente la salute di Manute. Il suo fisico indebolito e le sue articolazioni logorate, non gli permettevano più di giocare a pallacanestro ad alti livelli: persino in Qatar, dove era migrato nel 1998, faticava a trovare spazio.
Quando decise di tornare a casa, a Turalei, Bol, era un uomo completamente diverso rispetto a quello partito con la pelle di leone sulle spalle ed un biglietto aereo verso una destinazione indecifrabile: ora indossava la cravatta, parlava perfettamente l’inglese, leggeva il New York Times, conversava con i membri del Pentagono cercando disperatamente di sensibilizzarli sulla questione sudanese.
In patria, lo accolsero come un eroe: Bol era un uomo di successo, conosciuto in tutto il mondo. Nel 2001, il governo sudanese gli offrì, addirittura, il prestigioso ruolo di Ministro dello Sport, ma dettando una precisa condizione: rinunciare alla fede cattolica per convertirsi all’Islam. Bol, fiero discendente della tribù Dinka, pastori delle pianure del sud, cristiani da generazioni, rifiutò sdegnato. Accusato di tradimento fu costretto alla fuga, in Egitto, Al Cairo, prima, a bordo di un piccolo aereo di un amico nel cuore della notte, e di nuovo negli Stati Uniti, poi, accolto nel 2002 come un rifugiato religioso.
E proprio negli USA, nel 2010, a Charlottesville, Virginia, terminava la folle corsa del gigante Manute. I suoi reni, paradossalmente troppo piccoli, non riuscivano più a svolgere il proprio compito. Gli amici, tra cui Charles Barlkley, ed i 10 figli lo ricordano sereno. Raccontava spesso del suo gregge, pregava Dio perché regnasse la pace, sorrideva, proprio come nella foto, con i piedi enormi che sbucavano da sotto le lenzuola, una pelle di leone accanto al letto ed una copia del New York Times, ben stretta tra le mani.