Westbrook contro Westbrook: cadute e risalite del nuovo MVP
Ha vinto Russell Westbrook, l'uomo solo al comando di una nave, per parafrasare gli Oklahoma City Thunder, che non viaggia senza difficoltà. Premiato il lavoro di sacrificio e la solitudine di uno dei numeri primi di questa Nba, anche al cospetto di Harden monumentale nel gioco dei Rockets ma penalizzato dall'assenza nei suoi assets di una vera dimensione difensiva, nonché il taciturno Leonard, a cui un titolo non avrebbe dato o tolto nulla. È la consacrazione, se vogliamo, di uno dei giocatori più strani del mondo Nba, una combo col tritolo nelle gambe capace di incidere in vari modi sul rettangolo di gioco, che fino ad adesso sembrava aver mostrato sempre la parte peggiore del suo talento.
Questo titolo di MVP forse non lo rende ancora nell'immaginario dei GM Nba quel giocatore che regge le sorti di una squadra ideale per vincere il titolo, ma di sicuro attesta in maniera inequivocabile che sarebbe preferibile non averlo mai contro in una gara da dentro o fuori, perché se inizia ad avere il sangue agli occhi rischia davvero di poterla vincere da solo. E al di là del buzzer contro Denver che vale i playoff, sono quelle giocate ai limiti dell'assurdo che fa per sé e coinvolgendo i compagni che mostrano a pieno titolo il carattere di un ragazzo che, scelto da Seattle quando già si levavano le ancore verso l'Oklahoma ed in fase di rebuilding, ha dovuto combattere prima con sé stesso e con il suo essere "generoso" e poi con l'intera lega in cui "tutto e il contrario di tutto" non sono sintomo certo di affidabilità.
La commozione nel citare parenti e familiari nel discorso di ringraziamento non sono parole di circostanza studiate ad arte, quanto invece la testimonianza che dietro l'alieno che chiude in tripla doppia di media e battendo il record di Robertson c'è anche qualcosa di molto sentito, accorato, con quella capacità di mandare il cuore oltre l'ostacolo proprio quando tutto avrebbe significato il contrario. Quel sorriso in cui è immortalato col trofeo in mano, dentatura ben in mostra e lucente, con giacca sobria - questa la novità - può essere una istantanea dell'Nba del nuovo corso e ricorda tanto quel sorriso sardonico di Magic Johnson, un altro che sul parquet tendeva a dominare con arroganza. Chissà che l'uomo nella stanza dei bottoni dei Lakers non possa farsi un pensierino, accoppiandolo a Lonzo, altro prodotto da Ucla guarda un po' per una coppia che sancisca il ritorno in auge dei gialloviola.
Da sfondo gli altri premi. Da Mike D'Antoni che cita e ringrazia Peterson, almeno nelle interviste italiane, per quanto ha imparato. Non la prima volta che vince la "panchina dell'anno" ma il conto dei titoli resta sempre al palo. Gm dell'anno in casa Warriors, premio più scontato del solito, mentre il più migliorato è Giannis Antetokoumpo, passato in quattro anni dall'essere nelle minors greche al vertice Nba, unico nella storia a finire in Top 20 per punti, rimbalzi, assist, recuperi e stoppate. A Milwaukee anche il premio di rookie dell'anno con Malcom Brogdon premiato per una stagione in cui, oltre al tiro e alla visione di gioco, cosa non da poco per una guardia, ha aggiunto vittorie e personalità che han fatto bene ai Bucks. Sorprese nei quintetti difensivi, con l'esclusione di giocatori di Boston, criticata non senza parole al vetriolo da Isaiah Thomas.