Steve Nash: la capacità di essere il migliore in campo e fuori
“Quando Goran Dragic fa up and under è Steve Nash. Quando Tony Parker gioca tre pick and roll nella stessa azione è Steve Nash. Quando Rondo penetra e pesca il tagliante con un passaggio dietro la schiena è Steve Nash. Quando i Warriors “vanno piccoli”, gli Hawks “veloci" e gli Spurs “cinque fuori” sono Steve Nash. Russel Westbrook, Ricky Rubio, Kyrie Irving, Steph Curry e Chris Paul hanno tutti un pezzo di Steve Nash, anche se non se ne rendono conto”.
Questa è la descrizione più azzeccata possibile per definire Steve Nash e riassume perfettamente la storia di un giocatore che è stato in grado di rivoluzionare completamente il basket NBA dall’altezza di 1,91 m.
Nasce a Johannesburg il 7 febbraio 1974 e questa è assimilabile a una data natalizia per tutti quelli che giocano e giocheranno il ruolo di playmaker. Suo padre era un giocatore professionista di calcio e gli ha dato innanzitutto il gene dello sport, ma anche quello del trattatore della palla, sia con le mani che con i piedi. Steve non ha mai perso occasione di giocare a calcio nei suoi momenti liberi, andando anche in Europa nei ritiri delle squadre e magari giocare con loro qualche allenamento. Ha organizzato per anni lo “Showdown in Chinatown” assieme a Claudio Reyna e Simone Sandri, una partita di calcio benefica che si tiene ogni anno a New York e raccoglie fondi per la Nash Foundation, annoverando moltissimi sportivi e celebrità. Papà John non era un goleador, ma adorava passare il pallone ai compagni e ogni volta che vedeva suo figlio giocare non era interessato a quanti gol/punti facesse, ma a come avesse coinvolto i compagni: “Wow, hai fatto trenta punti?” è una frase che non sarebbe mai uscita dalla sua bocca, in compenso era più probabile sentire “Gran bella visione nel trovare quel tuo compagno che tagliava”, perché l’indole del passatore arriva sicuramente da lui.
La famiglia Nash si gira diversi luoghi durante l’infanzia di Steve, poi decide di stabilirsi a Victoria, una cittadina limitrofa a Vancouver. Da qui viene la nazionalità canadese di un bianco nato in Sud Africa, cresciuto in Canada e formatosi negli Stati Uniti.
All’High School conosce quello che riterrà il miglior allenatore della sua carriera: Ian Hyde-Lay. Lui gli ha insegnato la disciplina, il sacrificio e la necessità di migliorarsi ogni giorno preparando tutto nei minimi dettagli. A dire il vero Ian ha potuto usufruire di Steve perché Lanny e Sheff (suoi coaches all’High School) avevano visto in quel piccolo ragazzo bianco una vera e propria dinamite di energia e voglia di fare sport, proponendolo al successivo allenatore.
L’aneddoto più bello che Steve ricorda è quando, a vent’anni di distanza, ha ricevuto una mail dall’ex coach che gli ha fatto notare di aver mancato un taglia-fuori a otto minuti dalla fine del quarto periodo di una partita contro Memphis. Incuriosito si è andato a rivedere il frammento incriminato, dando ovviamente ragione al suo coach.
All’età di sedici anni Ken Shields, selezionatore della nazionale di basket canadese, lo invita a qualche allenamento e ne forgia ancor di più la voglia di riuscire, infatti quando viene reclutato dall’università di Santa Clara coach Dick Davey, allenatore della squadra, ne scalpella gli ultimi angoli per renderlo un giocatore dominante a livello NCAA. Viene scelto dai Phoenix Suns con la quindicesima chiamata assoluta ed è un onore per lui poter giocare e allenarsi al fianco di Kevin Johnson e Jason Kidd, ma con questi campioni è difficile trovare spazio: “Sapevo di non essere forte come Kevin o Jason -ha detto- e che dovevo cercare di imparare quanto più possibile nei primi anni di carriera”. Nonostante il “doppione” un giovane Donnie Nelson, all’epoca nel front office dei Suns, aveva puntato forte su Nash dicendo a Colangelo: “Se Nash è un bust potrai assegnare il mio posto a chi vorrai”.
Dopo la prima esperienza a Phoenix, Steve si trasferisce ai Dallas Mavericks dove poco prima si era insediato proprio il Donnie che lo aveva voluto in Arizona. Arriva in Texas assieme a un alto tedesco con la pettinatura simile a quella Nick Carter dei Backstreet Boys dal nome Dirk Nowitzki.
I due vanno a vivere nello stesso palazzo e legano subito a livello personale, sfidandosi costantemente a H-O-R-S-E nelle serate in cui non c’è partita. Ognuno stimolava l’altro a fare meglio e a lavorare sui propri fondamentali. Durante un match di metà stagione il pubblico di Dallas si stava spazientendo per delle prove non convincenti del canadese, ma lui venendo da 1-10 dal campo, infilò una tripla in transizione suscitando in Nowitzki un pensiero esemplificativo: “Questo ragazzo ha dei grossi attributi dentro quei pantaloni”. Con il tempo il tedesco definirà il compagno come un normodotato che passa in mezzo agli alberi e quando sembra intrappolato, serve assists irreali ai compagni.
Tra i due il rapporto va ben oltre il campo, si crea una forte amicizia e una grande empatia sul campo, ma nel 2004 i Dallas Mavericks dopo diverse cocenti sconfitte decidono di scambiarlo mandandolo a Phoenix, dove casualmente si era insediato Mike D’Antoni come allenatore.
“Mi avevano detto di non giocare il mio solito basket spumeggiante perché nell’NBA avrei miseramente fallito -ha detto il coach- ma quando decisi di mettere in campo i migliori giocatori che avevo, ho abbassato il quintetto e dato le chiavi della macchina a Steve. Ha funzionato”. Questi sono gli anni più brillanti della sua carriera e nel biennio 2005-2006 si aggiudica due premi di MVP portando la squadra a una rissa dalla finale NBA 2007. Steve ha sempre avuto la capacità di migliorare i compagni allungandone la carriera o sopravvalutandone i pregi. Grant Hill ha giocato per due anni con lui a fine carriera tornando un giocatore importante, così come Channing Frye che ha confessato un piccolo segreto di Steve: “Sa con che piede ogni compagno preferisce arrivare sul pallone e solo in quel momento lo fa arrivare. Se arriva con mezzo secondo di ritardo, si accusa dell’errore anche se hai tirato con metri di spazio”.
Questa è la grandezza dei migliori. Anche di far guadagnare 24 milioni a un Tim Thomas che al suo fianco sembrava un giocatore competente, ma che poco dopo si rivelò finito.
Quello che ha sempre reso unico Steve Nash è il lavoro quotidiano, incessante e con una grande pressione addosso che lui stesso si metteva. “Sono quello che sono –ha detto- perché non c’è nessuno che si allena duramente come me”. Il tiro è questione di allenamento, ma al momento della sua ultima intervista in quel di Los Angeles arrivava da cinque mesi in cui non aveva mai scagliato uno spalding verso il canestro. “Sto male perché non tiro e un giocatore quando capisce che deve ritirarsi ed è abituato ad aspettarsi così tanto da se stesso, è come se morisse una prima volta”.
La sua routine di shooting drills è solo la punta di un iceberg fatto di lavoro e continuo perfezionamento che lo hanno portato a far parte del club del 50-40-90 (percentuale dal campo, da tre e ai liberi) assieme a Bird, Calderon, Durant Kerr, Miller, Nowitzki e Price. Ma Steve arriva sempre dove l’aria è rarefatta, infatti è stato in grado per quattro volte di fare 50-40-90, il doppio delle due volte di Larry Bird.
Tutto questo con 10335 assists per i compagni e conducendo in carriera un offensive rating medio delle sue squadre alla fantomatica quota di 118.5, dietro solo a Johnson, Stockton e Paul, ma davanti a James, Jordan, Durant e Bryant.
Se in campo è sempre stato un MVP, c’era un’altra cosa che lo distingueva dagli altri e lo metteva nella stessa categoria di Shaquille O’Neal che ha sempre sostenuto di non vivere di solo basket, ma anche di tante altre cose.
Infatti Steve oltre alle ben note qualità di calciatore, si è dilettato assieme al cugino Ezra Holland con la regia di uno dei famosi cortometraggi 30x30 di Espn dal nome “Into the Wind” su Terry Fox corridore che con una protesi alla gamba ha corso da una parte all’altra del Canada. Con i proventi ha aiutato la ricerca contro il cancro. La sua bontà è raccontata anche da coach Triano che ha visto Nash recapitargli 3000 dollari da distribuire ai compagni come premio per le prestazioni delle olimpiadi 2000 e insistendo per viaggiare in comuni sedili di aereo, lasciando la prima classe ai giocatori più ingombranti.
Queste sono solo alcune delle gesta di un fenomeno dentro e fuori dal campo che ha segnato indelebilmente il basket NBA e anche il modo in cui un campione si può approcciare a una professione che prevede già molta pressione, ma che con il duro lavoro non è preclusa a nessuno.
Non abbiamo parlato volontariamente dello Steve Nash in versione Los Angeles Lakers perché un quarantenne che battaglia con un infortunio che lascerebbe in sedia a rotelle una persona normale per rincorrere Irving e Curry negoziando quei minuti con dolori che ne impediscono il sonno, raccontano della grandezza della persona, ma soprattutto non rendono giustizia a un campione. Così come i sei falli in 360 secondi che nel 2007 fece contro i Portland Trail Blazers in una delle uscite per falli più fulminee della storia del gioco.
Perché, no, quello non è lo Steve Nash che è giusto ricordare.
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