Lauren Holtkamp: essere donna e arbitrare un mondo di uomini con autorità
Per chi ha talento non ci sono barriere di sesso, età o ceto sociale e nello sport questo ci viene insegnato con grande maestria dagli Stati Uniti. Se sei un perfetto sconosciuto con il dono della scrittura è certo che prima o poi una casa editrice o un sito specialistico verrà a trovarti, se sei brava a giocare e insegnare basket prima o poi una squadra ti viene a reclutare (vedi San Antonio con Becky Hammon), e sei brava ad arbitrare stai certa che prima o poi l’NBA busserà alla tua porta.
Così è successo al terzo arbitro femminile della storia NBA Lauren Holtkamp nata il 24 novembre 1980. In gioventù era una discreta giocatrice alla Drudy University dove studiava per il suo master in marketing e telecomunicazioni, ma per potersi permettere gli studi e togliersi qualche sfizio arrotondava andando ad arbitrare i ragazzini dodicenni in partite ufficiali. Nel 2004 inizia la sua carriera d’arbitro quasi per gioco, ma c’è lo scoglio dell’abbigliamento: “Quando mi sono messa i pantaloni da arbitro per la prima volta –ha detto- ho pensato a quanto brutta fossi e al fatto che sembrassi trent’anni indietro rispetto alla moda. Per una ragazza in età adolescenziale non è stato il massimo”.
Lauren muove i primi passi nella zona del Missouri e Kelly Holt, sovrintendente della categoria arbitrale di quella zona, la nota subito per la grande intelligenza, pacatezza e autorità.
Durante un torneo di AAU Holt compie la mossa che permette la svolta della carriera al neo arbitro: invitò Dock Sisk, responsabile degli arbitri WNBA, a guardare una partita che era gestita proprio dalla talentuosa ragazza. Sisk ne rimane folgorato e la invita al suo camp per giovani arbitri ad Atlanta. Da quel momento la famiglia Sisk diventa per Lauren il nucleo in cui rifugiarsi lontano da casa, infatti dopo il camp viene assegnata a un sobborgo di Atlanta, non casualmente molto vicino alla casa dei Sisk, di modo che potessero tenerla d’occhio in ogni occasione.
Ovviamente anche negli USA una conoscenza fa sempre comodo e Sisk introduce Lauren a Dee Kantner, il supervisore degli arbitri WNBA, che poco dopo reclutò la ragazza per farla arbitrare nelle partite di D-League.
Corre l’anno 2008, quindi quattro anni dopo gli arbitraggi con i bambini di 12 anni è impegnata su un campo maschile professionistico a condurre una partita. La sua esperienza maschile si mischia con quella femminile in WNBA: “Fu un quadriennio importantissimo -dice la Holtkamp- perché mi ha insegnato molto e mi ha formato in maniera indelebile scolpendo l’arbitro che sono ora”.
Nel 2012 e nel 2013 (per sei partite) riesce a fare un altro salto in avanti arbitrando sporadicamente qualche partita NBA e approcciando l’ambiente che diventerà suo di lì a poco. Nell’offseason 2014 squilla il telefono e il display recita il nome di Mike Bantom, il vice presidente esecutivo degli arbitri NBA. Il motivo della chiamata è molto semplice: “Le potrebbe interessare l’impiego a tempo pieno come arbitro NBA?”
La risposta poteva essere una e una sola, quella che ti cambia la vita in un minuto e ti permette di coronare il sogno per cui hai lavorato, speso energie e tempo libero.
Lauren non è stata il primo arbitro donna a calcare un parquet NBA perché nel 1997-98 la strada era stata aperta da Violet Palmer (ancora egregiamente al suo posto dopo 17 anni) e Dee Kantner ritiratasi nel 2002 e diventata supervisore dei fischietti in WNBA.
Nonostante ciò a 33 anni è il terzo fischietto donna della storia NBA ad essere assoldato full time. Questo dopo che in estate gli Spurs avevano ingaggiato Becky Hammon nel coaching staff, facendo fare un altro passo in avanti alla storia. “Il sesso non conta, -dice Gregg Popovich- quello che importa sono le competenze e la qualità del lavoro, quindi non ho bisogno di aggiungere altro. I fatti parlano per loro.”
L’epilogo positivo di questa storia è l’emblema dell’ugual possibilità da parte di tutti di perseguire un sogno. “Il fatto di aver avuto le stesse possibilità di chiunque altro per fare tutto il percorso, -ha proseguito Holtkamp- mi ha permesso di rimanere concentrata e focalizzata sul mio obiettivo. Credere nel proprio lavoro e soprattutto in un sistema che valuta solo ed esclusivamente quello è a dir poco essenziale. Ho sempre voluto far parlare il mio operato, non la mia sessualità e anche ora che sono all’interno di una lega e di una società che è comandata da soli uomini non ho alcun tipo di problema o pressione particolare, se non quella di far bene ciò per cui sono pagata. Per me non riguarda il discorso uomo o donna, è solo lavoro.
Sono conscia di essere un esempio e un qualcosa a cui ispirarsi come Palmer e Kantner lo sono state per me all’epoca. La mia speranza è di poter far fruttare al massimo questa possibilità e privilegio, magari ritrovandomi un giorno a Springfield. Nel caso succedesse davvero, mi farò trovare pronta con i pantaloni giusti per l’occasione.”
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