Kobe Bryant: dagli zero punti in un torneo al sorpasso su Jordan
La vita da predestinato di Kobe Bryant era facilmente intuibile da subito, perché oltre ad essere il figlio di un giocatore professionistico come Joe, era un ragazzo che alle elementari firmava autografi e li elargiva ai compagni intimandoli di tenerseli perché un giorno avrebbero avuto un valore. Anche se l’atteggiamento era lievemente tracotante, nessuno a vent’anni di distanza può dirgli che non li aveva avvisati.
Sebbene abbia sempre detto di non temere nessuno sul campo da basket come faceva Jordan, l’unico momento in cui ha davvero avuto paura nello sport è stato nel lontano 1983 quando suo papà era alle prese con l’ultima stagione da Pro nei Rockets e lui in un incontro di karatè. Kobe si mise a piangere con il maestro per l’evidente superiorità dell’avversario e la paura di essere surclassato. Venne obbligato a combattere e non ne uscì poi così male come pensava. Da quel momento ha capito che il concetto di paura nello sport può esser facilmente prevaricato. Nel 1991 andò alla Sonny Hill Involvement League di Philadelphia e chiuse tutta la competizione senza segnare un singolo punto. “Non ho mai segnato. –ha detto- Dal campo, ai liberi, per sbaglio. Mai. Non volevo che questo riaccadesse e da quel momento ho cominciato a lavorare duro per migliorare non smettendo sino a oggi”. In quel periodo in Italia ha lavorato moltissimo sui fondamentali: il lavoro di piedi, il palleggio e il tiro così l’anno successivo si è presentato con l’idea di diventare il miglior giocatore della competizione. Ovviamente lo diventò davanti a Tim Thomas e negli anni successivi portò Lower Merion High School al primo titolo in 53 anni di storia. In un allenamento precedente alla finale si ruppe il naso e così cercarono di trovargli una maschera per riparare il volto. A cinque minuti dalla palla a due la scagliò contro il muro e giocò senza ispirando con 39 punti la vittoria della sua scuola. E’ solo il primo gesto di estrema cocciutaggine e voglia di vincere che caratterizzerà la carriera di Kobe.
Ripercorrere i suoi traguardi e le sue vittorie è qualcosa di banale perché il palmares parla per lui, ma la vera grandezza si può spiegare nelle piccole cose. Ha appena superato Michael Jordan come terzo miglior marcatore della storia del gioco e lo stesso Michael ha detto qualche settimana fa che Kobe è l’unico ad averlo “emulato” e a esser riuscito a rubargli mosse ed efficacia. Tutto questo è stato frutto del compulsivo lavoro quotidiano che ha fatto sulla sua pallacanestro e sul suo fisico. Qualche anno fa quando OJ Mayo gli chiese se potesse lavorare con lui, Kobe accettò e gli diede appuntamento alle tre per allenarsi insieme. Mayo ovviamente non vide mai arrivare Kobe e quando l’incrociò il giorno successivo gli chiese: “Come mai non sei venuto?” Kobe rispose: “Io ti ho dato appuntamento alle tre di notte, non del giorno e tu non c’eri. –ha risposto- Non voglio perdere del tempo con chi non ha voglia di sacrificarsi veramente. Tu hai bisogno di un entourage che ti coccoli, non di qualcuno come me che ti distrugga in tutti i tuoi errori.”
In queste parole c’è tutto Kobe, uno dei maggiori McDonalds addicted dell’intera lega secondo Gary Vitti, che ha rinunciato a tutti i suoi piccoli vizi pur di essere performante anche a 36 anni. Dopo essere diventato il record man per tiri sbagliati in carriera, per essere stato il più vecchio ad aver messo insieme una tripla doppia, ha anche appena passato il suo idolo e rivale Jordan “Tutti quando giocavano contro di lui erano impauriti –ha detto- e quasi riverenti nei suoi confronti. Io in campo non ho mai avuto paura di nessuno, neanche di lui”. Nella categoria dei punti, non sappiamo quale possa essere il suo prossimo obiettivo (forse provare a raggiungere Malone) sappiamo per certo che la sua carriera è già unica così e la sua voglia di vincere paragonabile solo a quella di MJ.
In tanti, forse troppi, l’hanno contestato oltremodo per le sue idiosincrasie e la sua natura compulsiva da competitor, ma quando si ritirerà ci mancherà. Già quando si ruppe il tendine d’achille e scoppiò in lacrime negli spogliatoi assieme a Vanessa tutti gli appassionati temevano di non rivederlo più. Quando rimase per due ore con un asciugamano in testa dopo aver scagliato due ariball che costarono la partita di playoffs ai Lakers nel 1997 tutti erano pronti a dire che non avrebbe mai fatto strada, invece ora nonostante le sue esternazioni con dei compagni che non sono mai arrivati al suo livello di dedizione e nonostante la firma di un faraonico (forse esagerato) contratto alla sua veneranda età, siamo a celebrare il terzo miglior marcatore ogni epoca.
Non ha mai accomunato tutti, anzi probabilmente ha separato il mondo tra lovers e haters, ma se mai potessimo mettere un giocatore in una comparazione costruttiva con Michael Jordan, sarebbe solo ed esclusivamente lui.
E che si ami o si odi, bisogna solo togliersi il cappello e rivivere con la memoria la sua carriera.
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