Kidd-Gilchrist: anche chi gioca nell'NBA non sa tirare in sospensione
Come insegna Manu Ginobili, non è tanto importante da dove si parte, nel suo caso una scelta 57 al draft, ma quanto dove si arriva e come. Vincere o riuscire nello sport e nella vita è una gioia concessa a pochi, ma è alla portata di tutti e può essere raggiunta solo con il lavoro quotidiano e la dedizione incondizionata. Chi di questo ne ha fatto un credo nella scorsa estate è Michael Kidd-Gilchrist, ala degli Charlotte Hornets definito uno dei migliori difensori della lega nella posizione d’ala, ma uno dei più terribili tiratori presenti nell’intero lotto.
Michael nasce il 26 settembre 1993 a Philadelphia e viene reclutato dall’AAU program all’età di sette anni. A 12 diventa amico di un rapper che diventerà piuttosto famoso con il nome di Jay-Z e infine gioca in una squadra di High School già sponsorizzata dalla Reebook. Un buon inizio per un giovane virgulto con la passione dello sport. Il papà, Michael Sr, era una guardia tiratrice di buon livello a Camden High e nel 1984 vinse il titolo statale: “Io gioco, perché lui ha giocato” dice Michael Jr quando parla di suo papà. Comincia il suo percorso a spicchi alla Magnolia Elementary School, mettendo poi in pratica gli insegnamenti al Coobs Creeke Recreation Center a Ovest di Philadelphia in una palestra dove ci sono ben 65 ragazzini tra cui due promesse come Dion Waiters e Tyreke Evans. In quel luogo rimane in campo solo chi vince e per dimostrare chi veramente fosse, Michael ne vince 17 in fila alla prima esperienza. Oltre a questo ha avuto la fortuna di essere in squadre sempre molto dotate di talento che potessero evidenziare e valorizzare le sue qualità di lottatore. All’High School gioca nella squadra di Kyrie Irving (prima scelta assoluta 2011), mentre al college spartisce il campo con Anthony Davis (prima scelta assoluta 2012) ai Wildcats di Kentucky.
Successivamente fa parte dell’AAU Middle Class Team e la conduce all’inebriante record di 100-1, con l’unica sconfitta che avvenne con un tiro allo scadere da metà campo. Il suo allenatore era abbacinato ogni volta che metteva piede in campo, ma quello è stato l’ultimo momento splendente della sua carriera cestistica. Da lì in poi saranno più i bui delle luci e in questi momenti di difficoltà il ragazzo riguarda l’unico DVD che porta sempre con sé ovunque vada: “Il re leone”. Significa molto perché assieme al padre ha passato molte serate a vedere e rivedere quel film, con lui nella parte di Simba e papà in quella di Mufasa. Quando il suo Mufasa morì rimanendo vittima di una sparatoria a Est di Camden fu un brutto colpo per lui e ogni qualvolta gli sia possibile risveglia l’ultimo momento in cui erano stati insieme, nel letto, a guardare quel film. Per questo prima dell’ultimo saluto a papà mise un pupazzo di Simba all’interno della tomba, per ricordargli che il suo leoncino sarebbe stato sempre con lui. Questo dramma, assieme all’assassinio dello zio nello stesso giorno in cui firmava per Kentucky, non lo hanno mai abbandonato e ha dovuto girare ben tre specialisti della lingua in undici anni per risolvere i propri problemi d’espressione. I suoi compagni di squadra lo prendevano costantemente in giro e sebbene sua mamma si preoccupasse per lui non sembravano esserci grossi miglioramenti.
Quando nel 2011 arriva al Kentucky Center of Academic and Tutorial Services incontra Meg Shake che farà la funzione di seconda madre. La logopedista Meg gli ha insegnato sostanzialmente a parlare correttamente guidandolo su come e dove fosse da mettere la lingua, assieme a quanto e come dovessero aprirsi le labbra. Quando pronunciava la “p” Meg gli chiedeva dove avesse la lingua e una volta risolto questo piccolo problema passò alla fonetica continua, ovvero un metodo nel quale si pronunciano le parole come se fossero senza spazi in un unico flusso acustico per far sì che le corde vocali rimangano sempre in vibrazione. Sua nonna gli regalò un metronomo per scandire al meglio il tempo delle sue battute, mentre Meg faceva incessanti sedute in cui con un microfono della Wii simulava le interviste post partita che gli sarebbero state fatte. Dopo qualche tempo Meg si chiudeva in bagno per ascoltare alla radio le conferenze stampa di Michael, sino a diventarne davvero fiera in occasione delle Final Four 2012 quando il suo ragazzo dovette rispondere a una domanda sul suo difetto di pronuncia. Ne uscì alla grande e rese immensamente fiera la sua maestra.
Siccome imparare qualcosa dall’inizio è difficile, ma ricostruire qualcosa da zero dopo averlo costruito è ancora più complesso, oltre a questo traguardo lessicale che ha dovuto compiere con grande fatica, c’era un jumper che era diventato oggetto di scherno ad ogni livello. Ci sono foto in rete che lo ritraggono in movimenti di tiro mai visti, con piedi che puntano dalla parte opposta rispetto al canestro e braccio a completo angolo retto di lato al pallone. Sopo il suo primo anno a Charlotte ha cominciato a perdere completamente fiducia e se volete far vedere a un ragazzino tutto quello che non si deve fare per un tiro in sospensione, mostrategli una di quelle foto di MKG.
Dopo che nella scorsa stagione non poteva stare in campo nei minuti finali ed era battezzato senza mezzi termini dalle difese, si è guardato allo specchio comprendendo che non fosse possibile continuare a essere un giocatore così limitato.
Dopo gli anni al college il suo tiro è peggiorato drasticamente e dopo il primo anno lo slump era diventato evidente, ma lo staff ha avuto paura a ricostruirlo da subito perché non voleva creargli ancor più confusione in testa, salvo poi appurare che avesse toccato il fondo arrivando a un punto di non ritorno nel quale non era possibile soprassedere.
Avendo gli Hornets a disposizione nello staff uno dei migliori tiratori della storia come Mark Price, era perlomeno necessario cercare di eliminare tutto quello che avesse imparato sino a quel momento e ricominciare da zero per costruire un movimento di tiro ortodosso, visto che del suo originale non c’era davvero nulla da salvare. Price comincia a Maggio 2014 dall’a-b-c e impedisce a Michael per due mesi di giocare qualsiasi tipo di basket agonistico, anche con i suoi amici o in Summer League, perché doveva solo ed esclusivamente dedicarsi al tiro con lui. Gli è stata addirittura interdetta anche la possibilità di allenarsi da solo.
Per la prima settimana non tocca la palla lavorando solo ed esclusivamente sui piedi per correggere l’orrendo vizio di farli puntare dal lato opposto al canestro. All’inizio riceve il passaggio con l’arresto, e aggiunge il salto solo qualche giorno dopo. Sistemato quest’aspetto, ha cominciato a tirare senza l’uso della mano sinistra, obbligandosi a creare un’asse tra spalla, gomito e polso, lavorando anche sul rilascio. L’ultimo step prevede di tirare per un mese entro i cinque metri di distanza, perché era necessario curare il movimento senza imprimergli troppa forza deviante. Alcuni giorni si allenava mezz’ora, altri tre ore “Volevo che andasse via dalla palestra con la convinzione di essere sulla strada giusta –disse Price- e di acquisire sicurezza”. Nessuno poteva dire nulla al giocatore se non il suo allenatore diretto e a tutti era preclusa la possibilità di parlare con lui della sua situazione, perché doveva essere totalmente concentrato.
Arrivato il momento del training camp si presenta in palestra e comincia a tirare stupendo tutti i suoi compagni che erano abituati ad ogni tipo di bruttura precedente. “Dannazione, hai un buon movimento di tiro!” gli disse Jefferson dopo pochi minuti. Michael non ci credeva perché non aveva mai sentito quelle parole nella sua carriera, ma lo riempirono d’orgoglio e da quel momento non erano sono solo i compagni a dirgli di tirare, ma anche nella sua testa si era perfettamente reso conto di poter tornare ad essere un tiratore perlomeno accettabile. Non ha ancora esteso il raggio di tiro a dietro l’arco (nessun tentativo in stagione) e sebbene sia stato encomiabile il suo processo di ricostruzione del tiro c’è da considerare che ha praticamente sprecato i suoi primi tre anni di NBA riciclandosi solo come ottimo difensore, ma rimanendo unidimensionale e assolutamente non affidabile. I suoi miglioramenti sono stati notevoli dal punto di vista del tiro, ma in realtà è semplicemente tornato al livello che aveva prima di lasciare il college. Una ritrovata fiducia e una media punti di 10,2 che uniti ai 7,6 rimbalzi fanno di Kidd Gilchrist una pedina utile all’interno di una squadra strutturata, ma di sicuro essere tornato ai livelli di tre anni fa non depone a favore di un’etica del lavoro piuttosto alterna e di un gioco che non è stato sviluppato e ampliato dal suo arrivo in NBA.
Mancandogli una caratteristica fondamentale per diventare un 3 and D player, rischia di finire a fare il Reggie Evans di alto livello per tutta la carriera, gettando al vento il lavoro che ha fatto prima per esprimersi in modo fluente e senza difficoltà e poi per ricostruire la sua psiche e il suo movimento tecnico di tiro. Ricostruire un grattacielo abbattendo il precedente dalla base è molto più difficile che costruirlo da zero, ma non basta un’estate di costruzione delle fondamenta per poter arrivare in cielo.
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